Volevo solo fare la pipì

Mi chiamavo Massimo. Si, “mi chiamavo”, perché sono morto nel 2019. Che stupido, pensate, sono morto perché volevo fare la pipì. Eppure ero andato tante volte in quel posto. Era riservato, ma nessuno mi aveva mai “detto niente”. Forse non se n’erano nemmeno mai accorti.

Ero un autista di una ditta di trasporti bitumi, e andavo quasi tutti i giorni nello stabilimento a caricare il bitume che poi portavo sull’autostrada che stavano costruendo. Posizionavo il camion sotto la benna di carico, e mentre il bitume “scivolava” nel cassone io ne approfittavo per fare la pipì. Il locale era aperto, e non ci stava nessun segnale. Io entravo e poi uscivo.

Ma quel giorno, quel maledetto giorno, la benna di caricamento si è messa in moto e mi ha colpito alla testa. E sono morto. Hanno fatto anche un processo per capire di chi fosse la colpa. Da lassù ho sentito che il mio consulente, anzi quello di mia moglie, ha detto che quel locale doveva restare chiuso. Anzi ha detto di più. Ha detto che il macchinario non era marcato CE e doveva essere reso a norma come previsto dall’art. 70 comma 2 del D.Lgs. 81/08 e dall’allegato V.

Io non ne capisco niente di leggi e di norme. Ma una cosa l’ho capita. Che se ci fosse stata una porta chiusa con un lucchetto, e un dispositivo di blocco del macchinario in caso di apertura, io forse non sarei morto. Ma io non sapevo niente di tutto questo. Io entravo nello stabilimento, firmavo la bolla, caricavo il camion ed andavo via. Non sapevo nemmeno se nello stabilimento ci stavano i gabinetti. Figuratevi che sono morto senza scarpe di sicurezza e gilet ad alta visibilità, e non avevo nemmeno il tesserino identificativo previsto dall’art. 26 del D.Lgs. 81/08. Ma anche questo l’ho scoperto dopo. Lo ha detto il mio consulente al processo. Ma non gli hanno creduto purtroppo!

Anzi, nella sentenza di primo grado hanno scritto che io sono morto per comportamento negligente ed imprudente… per una ragione rimasta ignota. E ancora che le risultanze testimoniali e documentali acquisite nel corso del dibattimento, hanno smentito tutti gli assunti sostenuti dal mio consulente nelle conclusioni del suo elaborato (scritto peraltro senza aver mai preso visione del manufatto in questione). Ossia, non è vero che il macchinario non marcato CE dovesse essere adeguato a quanto previsto dall’Allegato V del D.Lgs. 81/08, e non è vero che il preposto non aveva vigilato sui miei comportamenti. Questo aveva scritto il mio consulente nelle sue conclusioni. E non ultimo, che senso aveva andare a visionare un macchinario non marcato CE per il quale l’ASL competente aveva prescritto la messa a norma proprio come previsto dall’Allegato V del D.Lgs. 81/08, prescrivendo l’installazione di una barriera che impediva l’accesso al locale, con segnaletica idonea e blocchi sulle aperture. Alla fine nella sentenza è scritto che il mio comportamento ha determinato un “rischio eccentricocon conseguenti atteggiamenti anomali e stravaganti.

Cioè sono morto per colpa mia!  E quindi tutti assolti. E non è finita qui.

L’INAIL ha provveduto a sospendere la rendita erogata a favore di mia moglie in quanto dalla sentenza è emerso che la causa esclusiva del mio infortunio mortale sia stato il mio comportamento “abnorme” e imprudente. Che rabbia. Ma nella vita per fortuna ci sono i super eroi. Anzi i super avvocati.

E il mio super avvocato (quello anziano questa volta) in Corte di Appello è riuscito a far emergere la verità, e nella sentenza c’è scritto che Il giudice nel mandare assolti gli imputati non ha tenuto conto che nessuna eccentricità vi può essere nel comportamento di un lavoratore che venga a contatto con un macchinario pericoloso se l’area in cui lo stesso si trova non è assolutamente preclusa. Proprio come aveva detto il mio consulente. Ma il giudice in primo grado non gli aveva creduto.

Per fortuna la verità vince.

Il Datore di lavoro e il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dello stabilimento sono stati condannati al risarcimento civile, e l’INAIL ha riconosciuto la rendita a mia moglie per fortuna.

Tutto bene quello che finisce bene.
Ma che dico. Io sono morto.
E solo perché volevo fare la pipì.

 

Ing. Carmine Piccolo

 

 

Omertà

Qualche giorno fa ho partecipato ad un bellissimo progetto che ha visto la partecipazione di numerosi studenti delle scuole superiori. In particolare erano futuri geometri. Come ingegnere ho sempre avuto grande stima dei geometri, come anche dei periti industriali! Non so… ma mi sembra che sappiano sempre qualcosa in più di noi ingegneri (parere strettamente personale).

Comunque. Erano futuri geometri dell’ultimo anno di alcune scuole di Napoli e Provincia. Non tutti erano interessati alla materia della sicurezza negli ambienti di lavoro, e non è stato facile renderli partecipi della materia proposta. Ma mi hanno colpito gli interventi di Vittorio e di Saman che hanno qualcosa in comune che vi dirò.

Vittorio ha chiesto quale fosse la prima sensazione che si prova quando accade un incidente sul lavoro. Mi è venuto spontaneo rispondere: l’omertà.
Si, proprio l’omertà dei colleghi di lavoro dell’infortunato. Coloro che non sempre sono collaborativi nella ricerca delle cause e dei responsabili che hanno determinato l’incidente nel suo evolversi. Omertà che nasce dalla paura, dal timore di esporsi o di subire “ritorsioni” dovute a inadempienze normative e contrattuali che potrebbero poi ritorcersi contro i datori di lavoro, con la paura di “perdere” l’impiego.

E alla mia affermazione di omertà, anche gli insegnanti che accompagnavano gli studenti hanno risposto allo stesso modo: anche nell’ambito scolastico, infatti, l’omertà prevale, per “difendere” il compagno di classe piuttosto che per individuare le responsabilità dei singoli.

Saman, probabilmente una ragazza originaria dello Sri Lanka, ha invece chiesto cosa si sarebbe potuto fare per il suo papà, rimasto infilzato con un ferro in una spalla, e che non aveva denunciato l’infortunio.
Omertà: anche stavolta è stata questa la risposta. Omertà che nasce, a mio parere, dalla paura di denunciare il datore di lavoro, da parte di un lavoratore non inquadrato, extracomunitario e chiaramente anche sottopagato. E la cronaca di questi mesi è piena di notizie del genere.

E allora sono andato sulla Treccani ed ho cercato: omertà.

In origine, la consuetudine vigente nella malavita meridionale (mafia, camorra), detta anche legge del silenzio, per cui si doveva mantenere il silenzio sul nome dell’autore di un delitto affinché questi non fosse colpito dalle leggi dello stato, ma soltanto dalla vendetta dell’offeso. Più genericamente, nell’uso odierno, la solidarietà diretta a celare l’identità dell’autore di un reato e, con senso ancora più estens., quella solidarietà che, dettata da interessi pratici o di consorteria (oppure imposta da timore di rappresaglie), consiste nell’astenersi volutamente da accuse, denunce, testimonianze, o anche da qualsiasi giudizio nei confronti di una determinata persona o situazione: tutti sapevano, ma nessuno osò infrangere il muro dell’omertà.

Ed è il “tutti sapevano” che mi fa paura. Che è quello che poi si scopre dopo un incidente.

La materia della sicurezza sul lavoro è molto complessa, per niente semplice, e ha bisogno di certezze per sapere dove intervenire, dove migliorare, dove modificare, come formare, come programmare per eliminare e/o ridurre il numero degli infortuni mortali e non.

E sicuramente l’assenza di verità (e cioè l’omertà) non può essere di aiuto.

Ing. Carmine Piccolo

È colpa di Gennaro

Si chiamava Gennaro.
È morto circa 10 anni fa in un pomeriggio d’estate, mentre riportava un mezzo d’opera in deposito.
È morto perché non indossava la cintura di sicurezza. È morto perché la presenza di una pavimentazione non idonea e di blocchi di muratura non posizionati correttamente hanno causato il ribaltamento del mezzo. E Gennaro per cercare di salvarsi si è lanciato dal mezzo d’opera, restando schiacciato mortalmente dallo stesso.

Gennaro non aveva mai partecipato ad un corso di formazione. Quei corsi che ti insegnano a “non morire”. Quei corsi che ti fanno capire a cosa serve indossare la cintura di sicurezza. Ma non era dovuto che Gennaro partecipasse a quel corso. Si, proprio quello obbligatorio previsto dall’Accordo Stato Regioni del 22/02/2012. Si, proprio quello!

Gennaro il mezzo lo aveva sempre utilizzato, quindi il corso non era necessario. Tanto Gennaro erano anni che utilizzava il mezzo. Che bisogno c’era di fare un corso se Gennaro “aveva sempre fatto cosi” e non era mai successo niente?!

Ma quel pomeriggio d’estate le cose non sono andate come gli altri giorni. Il mezzo si è ribaltato. E per l’istinto di salvarsi Gennaro si è lanciato.

E allora? Forse se qualcuno gli avesse spiegato che “l’istinto” di lanciarsi è proprio la causa dell’incidente mortale sui muletti e sui mezzi d’opera forse Gennaro sarebbe salvo. E quel pomeriggio Gennaro, stanco e sudato, sarebbe tornato vivo e vegeto a casa sua dalla moglie e dai figli.

Sono trascorsi dieci anni, e ancora nelle aule di tribunale si attende di chi sia la colpa. Nel mentre Gennaro non c’è più. E da qualche parte negli atti del Tribunale c’è scritto che “l’incidente è avvenuto per la sola ed esclusiva responsabilità di Gennaro che non utilizzava la cintura di sicurezza”.

Si, forse è colpa di Gennaro: la colpa di non aver utilizzato la cintura di sicurezza e di essersi lanciato dal mezzo per andare a morire. E allora gridiamo forte a tutti i Gennaro che allacciare la cintura di sicurezza ti salva la vita. E ricordiamo a tutti i Datori di lavoro che la colpa non è mai di Gennaro. In particolar modo se non ha mai partecipato ad un corso di formazione!

Ing. Carmine Piccolo